Negli ultimi 40 anni il bisogno di welfare in Italia è cambiato in maniera radicale, a seguito di tendenze irreversibili: l’aumento della vita media e il progressivo invecchiamento della popolazione, la riduzione della dimensione del nucleo familiare, il crescente numero di donne al lavoro, ma anche di nonni al lavoro, visto l’innalzamento dell’età pensionabile. Sono tendenze che hanno decretato la scomparsa del modello di famiglia ampia e allargata, che funge da sostegno naturale per discendenti e ascendenti.
La spesa pubblica a sostegno del welfare rimane, al contempo, fortemente concentrata su pensioni e sanità, mentre solo il 25% è destinato ai servizi di supporto a famiglie, invalidi e poveri (pari a 1.800 Euro pro-capite, rispetto ai 3.100 della Francia, 2.500 della Germania, 2.200 del Regno Unito), lasciando di conseguenza scoperti i bisogni di sicurezza sociale di gran parte della popolazione.
Negli ultimi anni, il welfare è tornato a essere un tema di attualità anche per le aziende. Ciò che cambia rispetto al passato è l’approccio, oggi infatti, l’attenzione al welfare aziendale è fondata nella necessità di trovare nuovi equilibri tra la gestione economica e organizzativa dell’impresa in uno scenario di mercato sfidante, nel rispetto di una mutata realtà sociale e delle diverse necessità dei collaboratori.
Le ricerche svolte su questa tematica in Italia, dimostrano che è possibile per le imprese dare un contributo alla domanda di welfare, rendendo l’intervento vantaggioso anche sotto il profilo economico. Le aziende, infatti, hanno compreso che il welfare sussidiario è fonte di numerose opportunità: aumenta la produttività, permette di ripensare i modelli organizzativi, supporta la diversity, contiene i costi e consente di rivedere le politiche retributive in un’ottica di diverso contesto di mercato.
La pre-condizione è che si conoscano approfonditamente i bisogni di welfare della popolazione aziendale.
Contrariamente a quanto si pensa, infatti, la domanda di servizi di welfare riguarda tutta la popolazione aziendale, indipendentemente dalle caratteristiche socio-demografiche ed economiche, dall’età o dal genere. La ricerca presa in esame sfata anche un altro mito. Prima della cura dei figli la popolazione aziendale ritiene più urgente il soddisfacimento di altri bisogni, come ad esempio la cura degli anziani, o la presenza di orari flessibili, e la possibilità di usufruire di congedi parentali retribuiti anche da parte degli uomini.
Inoltre, la tipologia di servizi richiesti cambia notevolmente a seconda delle fasi ciclo di vita del lavoratore: orari flessibili e servizi “salva-tempo” a vent’anni, asili aziendali (o in convenzione) e part-time a trenta, congedi parentali e part-time a quaranta, orari flessibili e assistenza anziani a sessanta.
Una politica di welfare aziendale ben strutturata produce effetti positivi e tangibili: maggior soddisfazione al lavoro, migliore immagine aziendale e più attaccamento al datore di lavoro. In questo senso, esso diventa perciò una leva di vantaggio competitivo importante sotto il profilo del benessere organizzativo. L’engagement index di un lavoratore può aumentare del 30% nelle aziende che non hanno welfare, e del 15% nelle aziende che già lo hanno ma potrebbero migliorarlo tarando meglio il pacchetto di servizi offerti in base ai bisogni.
L’impatto del welfare aziendale sulla produttività è molto positivo: per esempio può portare ad assenze per maternità più brevi (1,6 mesi, pari a 1.200 Euro di minori costi per dipendente), a una riduzione delle assenze per assistenza agli anziani del 15% (pari a circa 1.350 Euro all’anno), e alla disponibilità a lavorare di più (+5%, pari a poco meno di mezz’ora in una giornata di 8 ore).